[…] La soluzione del problema del
piano inclinato ebbe una notevole importanza nell'elaborazione della legge
della caduta dei gravi da parte di Galileo.
L'opera di Galileo
ci dà la possibilità di riconsiderare la distinzione tra moto perpetuo e motore
perpetuo: il significato della legge d'inerzia è che
un corpo non si può mettere in moto da solo e che, una volta in moto non può
distruggere il proprio moto. Una resistenza deve essergli opposta,
tramite la quale il moto del corpo viene assorbito da altri corpi. Pertanto la possibilità
di un corpo di restare indefinitamente in moto è legata alla impossibilità di
compiere lavoro durante il moto, cioè all'impossibilità di una continua
produzione di lavoro. La legge d'inerzia è dunque strettamente collegata
all'impossibilità del motore perpetuo e Galileo ne era ben consapevole: tale
impossibilità infatti sarà alla base della scoperta della legge di caduta dei gravi.
Anche le leggi del
piano inclinato (Stevino), hanno un ruolo nella sperimentazione che conduce
Galileo a formulare la legge di caduta dei gravi. Galileo misura i tempi di
caduta con un orologio ad acqua e scopre che le distanze percorse sono
proporzionali al quadrato dei tempi impiegati a percorrerle:
s=1/2 gt 2
Le velocità finali
sono proporzionali al tempo:
v f =g t
Ma l'idea di Galileo che sarà fondamentale per lo sviluppo
del principio di conservazione
dell'energia è la seguente: le velocità finali di
caduta sono indipendenti dalla traiettoria percorsa (cioè dall'inclinazione del
piano) e dipendono solo dall'altezza di caduta.
Sulla base di
questa idea Galileo determina che al variare dell'inclinazione del piano variano
sia la costante di proporzionalità g sia il tempo t, ma il loro prodotto
resta costante:
g't'=gt.
L'impossibilità del perpetuum mobile è di nuovo al centro dell'argomentazione. Galileo suppone che un corpo acquisti la stessa velocità finale sia cadendo secondo l'altezza del piano inclinato, sia cadendo secondo la lunghezza dello stesso piano. Immaginiamo infatti di deviare la velocità finale verso l'alto: il movimento sarà speculare e la velocità diminuirà proporzionalmente al tempo, annullandosi all'altezza originaria di caduta.
Fig.7 Pendolo con vincoli di Galileo
Il
corpo infatti risale alla stessa altezza da cui è caduto: se l'altezza fosse
superiore sarebbe violata l'impossibilità del perpetuum mobile; il
corpo, con operazioni successive, in virtù del solo proprio peso potrebbe
essere sollevato indefinitamente. Questa considerazione teorica porta a fissare
l'attenzione sull'altezza di caduta e non sulla traiettoria percorsa. Galileo formula
anche una indicazione sperimentale.
Spostato il pendolo dalla sua posizione di equilibrio e
lasciatolo cadere, esso risale alla stessa altezza dall'altra parte. Il
movimento della sfera del pendolo lungo il suo arco di cerchio può essere
considerato come una caduta su una serie di piani con differente inclinazione.
Si può facilmente, dice Galileo, far risalire il corpo su un diverso arco di
cerchio, cioè su una diversa serie di piani inclinati. Ciò viene realizzato
mediante i chiodi f, g, h. Si può controllare che l'altezza di risalita è
sempre la stessa, indipendentemente dalla traiettoria. Nel caso in cui la lunghezza
del filo non consenta di raggiungere la posizione di risalita (vincolo h) il
corpo tende a riavvolgersi sul vincolo, indice che la velocità non si è
annullata.
Questo
fondamentale risultato porta alla nota legge:
v f = Ö2gh
[…]
[…] Un ampliamento essenziale all'idea dell'eterno
divenire venne apportato dall'introduzione della legge dell'inerzia. L'antica
opinione, la quale poneva la velocità proporzionale alla forza e quindi, anche
in assenza di qualsiasi resistenza, considerava estinto con la forza anche il
moto venne a poco a poco lasciata cadere, già nel XVI secolo, dai più
autorevoli fisici. Nicola Cusano, Leonardo da Vinci e Benedetti, presso
i quali già ritroviamo alcune inconsapevoli applicazioni del non ancora
chiaramente intuito principio d'inerzia, rappresentano i più importanti precursori
di Galilei, il
quale per primo (1638) enunciò in forma definita il principio[4]. Più
tardi, specialmente Cartesio e Newton hanno contribuito a che il principio
raggiungesse un'importanza fondamentale per la meccanica. […]
[4] Discorsi e dimostrazioni matematiche, Dialogo terzo: " Dal che segue in pari modo anche il moto in orizzontale essere eterno: se infatti è uniforme esso non si indebolisce o diminuisce e tanto meno si accresce." [in latino nel testo]
[…] L'equivalenza tra causa ed effetto si manifesta,
secondo Leibniz, nel fatto che un sistema, nelle condizioni che corrispondono
alla causa ed all'effetto, contiene continuamente la stessa quantità di
energia. In questa ipotesi risiede la grande importanza del principio, per
lo sviluppo dell'energetica. Che ora l'effetto non
possa essere maggiore della causa, risulta, come intende Leibniz,
dall'impossibilità di un perpetuum mobile, il quale consisterebbe
appunto in una superiorità dell'energia dell'effetto rispetto a quella della
causa. Che d'altra parte l'effetto totale non possa essere minore della
causa, non viene ulteriormente dedotto. Leibniz accenna ancora espressamente al
fatto che le eccezioni osservabili alla legge sono solo apparenti; infatti,
quand'anche una parte dell'energia venisse assorbita dagli ostacoli, essa non
sarebbe stata distrutta, ma solo trasferita negli ostacoli. Una dimostrazione
più rigorosa del principio di uguaglianza non viene dunque fornita da Leibniz
e, a suo parere, non è affatto possibile. Infatti egli considera questo
principio come un assioma, alla stessa stregua della tesi
dell'impossibilità del moto perpetuo; che l'effetto totale sia continuamente
uguale alla causa piena, sarebbe essenzialmente un'ipotesi dell'alta metafisica,
la quale non si diffonderebbe in vuote parole ma tratterebbe l'essenziale
ed il comprensibile delle cose.
Due corollari, ai quali secondo Leibniz conduce il principio di uguaglianza, sono interessanti, in quanto essi rappresentano le generalizzazioni filosofico naturali di due teoremi fisico-matematici i quali furono di grande importanza per lo sviluppo dell'energetica. Uno dei due è il teorema di Galilei, che si riferisce alla caduta obliqua da una data altezza ed afferma l'indipendenza della velocità così raggiunta dalla forma della traiettoria il secondo è la tesi di Huygens, che stabilisce l'uguaglianza tra l'effettivo moto in discesa ed il possibile moto in salita. […]
[…] La stretta interdipendenza che in tutti i tempi legò
la meccanica, dalla quale cominciarono ad evolversi le teorie energetiche, alla
matematica, ebbe come conseguenza che fin dagli inizi della fisica moderna il
perfezionamento delle idee di filosofia della natura, riunite nella legge della
conservazione della forza, fu accompagnato da uno sviluppo parallelo delle idee
teoreticomeccaniche, la cui configurazione in estensione e compendio costituì
il primo fondamento matematico per la nuova energetica.
Gli inizi di questa evoluzione risalgono fino a Galilei.
Egli è il creatore di due principi i quali
già racchiudono in sè i germi di due importanti teoremi dell'energetica moderna
e che egli enunciò per primo nei suoi Discorsi (1638). Le
osservazioni sulla caduta lungo il piano inclinato condussero Galilei
all'importante nozione che per cadute da uguale
altezza la velocità finale del corpo in caduta sarebbe indipendente dalla
lunghezza della traiettoria descritta e quindi anche dall'inclinazione del
piano[1]. Le considerazioni sul piano inclinato convinsero anche
Galilei dell'ideale reversibilità di ogni
processo meccanico; per evidenziarla egli partì dal semplice esempio del moto
del pendolo.
Se B è il punto più basso della traiettoria del pendolo
possiamo concludere con certezza, secondo Galilei, che la velocità raggiunta
nel punto B da una sfera che cada lungo l'arco CB, sarebbe sufficiente a
provocare un movimento in su, lungo un arco BD di uguale lunghezza, fino ad
un'uguale altezza[2]. L'analogo deve naturalmente
valere per l'energia, per la forza, che Galilei denomina momento.
Quindi, il momento prodotto dalla caduta lungo l'arco BD dovrebbe essere uguale
al momento che muove lo stesso corpo in su da B a D, sicché dunque, in generale, ogni momento prodotto dalla caduta sarebbe
uguale al momento che è in grado di risollevare il corpo lungo il medesimo arco[3].
Ponendo ora in relazione queste considerazioni con il
principio discusso prima, Galilei riuscì a
generalizzarle anche per un moto che si svolga su un sistema di quanti si
vogliano piani, diversamente inclinati. Se si eliminassero gli ostacoli
che in un moto del genere si oppongono all'esperimento, apparirebbe ben chiaro,
come intende Galilei, che la forza, la quale racchiude in sè l'effetto della
caduta, sarebbe altresì in grado di riportare i corpi all'altezza da cui sono
caduti[4]. […]
[1] Discorsi e demostrazioni matematiche, Dialogo
terzo, "De moto naturaliter accelerato": "Assumo che i livelli
di velocità acquisiti dal medesimo mobile su diverse inclinazioni dei piani
siano sempre uguali, quando le elevazioni degli stessi piani siano
uguali."[in latino nel testo]
[2] ib.: "Dalche possiamo veracemente concludere, che
l'impeto acquistato nel punto B dalla palla nello scendere per l'arco CB, fù
tanto che bastò a risospingersi per un simile arco BD alla medesima
altezza."[in italiano nel testo]
[3] ib.: "adunque anco il momento acquistato nella
scesa DB, è eguale à quello, che sospigne l'istesso mobile per il medesimo arco
da B in D, si che universalmente ogni momento acquistato per la scesa d'un arco
è eguale à quello, che può far risalire l'istesso mobile per il medesimo
arco."[in italiano nel testo]
[4] ib.: "Mà levato l'intoppo, che progiudica
all'esperienza, mi par bene, che l'inteletto resti capace, che l'impeto (che in
effetto piglia vigore dalla quantità della scesa) sarebbe potente à ricondurre
il mobile alla medesima altezza."[in italiano nel testo]
[…] Anche G. Galilei sembra essere partito da una premessa
analoga a quella di Stevin nella dimostrazione della tesi che la velocità
raggiunta da un grave nella caduta lungo una traiettoria qualsiasi dipende solo
dalla distanza verticale tra le posizioni iniziale e finale, assumendo che, se
questo principio non fosse esatto, si potrebbe subito
indicare un mezzo per portare un corpo ad una altezza maggiore solo per effetto
del proprio peso, facendolo cadere lungo una certa linea curva e
risalire di nuovo lungo un'altra [linea curva n.d.t.] appropriata; in tal modo
avremmo naturalmente ottenuto il perpetuum mobile.
In stretto rapporto con ciò sta la nozione, uguamente già acquisita da Galilei, che, se si solleva (lentamente) (v8) un carico maggiore mediante un peso in caduta, i prodotti dei pesi per le traiettorie contemporaneamente percorse sono uguali, proposizione che più tardi venne ampliata, specialmente da Joh. Bernoulli (5) (1717) come principio degli spostamenti (velocità) virtuali. Proprio la tesi che un corpo non può salire in virtù del proprio peso o, in termini più generali, che un sistema di punti o corpi pesanti non può, per mezzo della forza motrice del suo peso, salire più alto del suo centro di gravità è diventata della massima importanza per lo sviluppo della meccanica ad opera di C. Huygens. […]