Il necesse determina l’esse. La buona fisica si fa a priori. La teoria precede il fatto. L’esperienza è inutile perché, prima di ogni esperienza, noi siamo già in possesso della conoscenza che stiamo cercando. Le leggi fondamentali del moto (e della quiete), leggi che determinano il comportamento spazio-temporale dei corpi materiali, sono leggi di natura matematica. Della stessa natura sono quelle che governano relazioni e leggi di figure e numeri. Noi le troviamo e scopriamo non nella natura, bensì in noi stessi, nella nostra mente, nella nostra memoria, come ci insegnò tempo fa Platone.
Io ho chiamato Galileo un platonico e credo che nessuno dubiterà che lo sia. E poi lui stesso si chiama così. Nelle primissime pagine del Dialogo, Simplicio osserva che Galileo, che è un matematico, simpatizza probabilmente con le speculazioni numeriche dei Pitagorici. Questo permette a galileo di dichiarare che le ritiene perfettamente prive di significato e di dire nello stesso tempo: “Che i Pittagorici avessero in somma stima la scienza dei numeri, e che Platone stesso ammirasse l’intelletto umano e lo stimasse partecipe di divinità solo per intender la natura dei numeri, io benissimo lo so, né sarei lontano dal farne l’istesso giudizio”.
Come poteva avere un’opinione diversa, lui che credeva che la mente umana raggiungesse nella conoscenza matematica la vera perfezione dell’intelletto divino?.
Ci basta […] descrivere l’atteggiamento mentale o intellettuale della scienza moderna mediante due caratteristiche (tra loro connesse): 1. la distruzione del Cosmo, e di conseguenza la scomparsa nella scienza di ogni pensiero basato su quel concetto; 2. la geometrizzazione dello spazio – cioè la sostituzione dello spazio astratto e omogeneo della geometria euclidea alla concezione dello spazio cosmico, qualitativamente differenziato e concreto, della fisica pregalileiana. Queste due caratteristiche si possono sommare ed esprimere così: la matematizzazione (geometrizzazione) della natura e, di conseguenza, la matematizzazione (geometrizzazione) delle scienze.
Testo curioso[1] e sul quale torneremo (d’altronde è confortato anche da molti altri) e dove si trova la maggior parte di quelle nozioni da cui proprio alla fisica galileiana si attribuisce il merito di averci liberati.
In che modo allora, se le cose stanno proprio così, Galileo ha potuto essere il fondatore – o uno dei fondatori – della fisica moderna, fisica basata, come abbiamo detto, sulla preponderanza della retta sul cerchio, sulla geometrizzazione dello spazio, sulla legge di inerzia? […] Allora? Galileo ha o non ha formulato – o almeno posto – il principio di inerzia? Interrogativo, secondo noi, troppo semplicista – la realtà storica è più complessa, più sfumata, più ricca -, interrogativo che, del resto, lascia sfuggire il solo problema veramente istruttivo e interessante: quello di sapere perché, nella sua battaglia per la matematizzazione del reale, Galileo non giunge a porre, espressamente almeno, (questo non potrebbe negarlo neppure Cassirer) questo principio d’inerzia che i suoi successori e discepoli hanno, ci si dice, così facilmente adottato?
[1] “SALV. […] In oltre, essendo il moto retto di sua natura infinito, perché infinita e indeterminata è la linea retta, è impossibile che mobile alcuno abbia da natura principio di muoversi per linea retta, cioè verso dove è impossibile di arrivare, non vi essendo termine prefinito; e la natura, come ben dice Aristotele medesmo, non imprende a fare quello che non può essere fatto, né intraprende a muovere dove è impossibile a pervenire.”
Ora, per l’uomo che se ne serviva, gli occhiali non erano […] uno strumento ottico. Essi erano ugualmente un utensile: […] qualcosa che appartiene al mondo del senso comune. E che non può mai farcelo superare. […] Galileo, dal momento in cui riceve notizia degli occhiali da avvicinamento degli olandesi, ne costruisce la teoria. A partire da questa teoria, insufficiente senza dubbio, ma teoria pur sempre, egli spingendo sempre più lontano la precisione e la potenza dei suoi vetri, costruisce la serie dei suoi perspicilli che mettono davanti ai suoi occhi l’immensità del cielo.
Gli occhialai olandesi non hanno
fatto nulla di simile perché, appunto, non avevano quell’idea
dello strumento che ispirava e guidava Galileo. Così il fine inseguito –
ed attinto – da questo e da quelli era interamente diverso. La lente olandese è
un apparecchio pratico: essa ci permette di vedere, a una distanza che supera
quella della vista umana, ciò che le è accessibile ad una distanza minore. Essa
non va e non vuole andare al di là, e non è un caso se né gli inventori, né gli
utenti della lente olandese se ne sono serviti per guardare il cielo. È, al contrario, per bisogni puramente teorici, per
attingere ciò che non cade sotto i propri sensi, per vedere ciò che
nessuno ha mai visto, che Galileo ha costruito i suoi strumenti, il telescopio
e poi il microscopio.